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Realtà tossiche – spunti da un romanzo

Millennial e Tecnocapitalismo
Millennial e Tecnocapitalismo

La letteratura contemporanea ci dà nuovamente indicazioni forti per elaborare la realtà che viviamo[1]. Il romanzo, duro e coinvolgente, di Sarah Rose Etter “Qui non c’è niente per te, ricordi?” ci racconta di una millennial che si barcamena in una azienda della Silicon Valley, nel cui contesto gli elementi del neoliberalismo sono praticati ed esaltati ad un livello eccezionale ed estremo. La narrazione di Etter collima in modo quasi perfetto con le interpretazioni della nostra società dateci da Mark Fisher e da Byung-Chul Han già sin dallo scorso decennio, nonché - da ultimo - da due sociologi italiani molto interessanti e acuti[2].

Ho provato quindi a leggere il romanzo accostandolo alle idee dei pensatori che analizzano una realtà che è davanti ai nostri occhi. Si realizza in tal modo un concreto e vivace dialogo tra Reale, Finzione e Teoria: le riflessioni dei Teorici si rispecchiano nelle parole della Finzione letteraria, che attinge alle immagini del Reale. Il nostro sguardo di osservatori della vita organizzativa si nutre delle idee della Teoria e, insieme, delle immagini e delle emozioni della Finzione, che ci appaiono sempre più vicine, allorché si ripropongono, in modo spesso drammatico, all’interno del Reale.

Cassie, la protagonista del romanzo, affronta ritmi di lavoro estenuanti, riuscendo ad accettarli anche grazie all’uso di sostanze stupefacenti “perché è così che funziona da queste parti” (qui lascio alla libera interpretazione di ognuno di noi trovare delle somiglianze ai piani alti della realtà politica globale). La storia di Cassie è connotata dalla duplice identità alla quale la protagonista deve far ricorso per gestire le tensioni e le contraddizioni che le pone il mondo del lavoro. E costantemente si addensa su di lei un malessere depressivo e opprimente, visto come un buco nero sempre in agguato. La realtà del lavoro, l’ambiente delle relazioni aziendali impongono comportamenti anti-etici e criminali alla protagonista e ai suoi colleghi, in nome della vittoria nella competizione. Ciò evidentemente aumenta le dimensioni del buco nero.

A questo punto non possiamo non accettare come una obiettiva e drammatica costatazione la connessione tra lo sviluppo della tecnologia, i meccanismi esasperati dell’economia neoliberale e il diffondersi nelle persone di un senso di smarrimento, nella riproduzione di un Altro-Reale, che sfocia in una vera e propria sofferenza psichica. La tecnica ci disumanizza, l'economia ci generalizza e insieme ci individualizza solo per fare di noi oggetti del mercato: questo determina la patologizzazione delle esistenze. In un mondo abitato da una “nuova razionalità” che fa derivare tutto dal Mercato, non solo non c’è spazio per una vita psichica libera da condizionamenti e capace di piena autonomia di scelta e di azione, ma si realizza piuttosto ciò che si può individuare come una vera e propria colonizzazione della vita psichica.

La vita aziendale nella distopia proposta da Etter non si pone limite alcuno, va sempre oltre la misura, e questa purtroppo è lontana dall’essere una mera fantasia negativa: possiamo vederne oggi il concretizzarsi nei comportamenti e negli stili dei più imponenti personaggi della politica e della economia globali. Si tratta (solo nel romanzo?) di comportamenti che intendono sempre andare oltre, superando i limiti fisiologici del tempo di lavoro, ma anche quelli etici, della considerazione dei mezzi e dei fini. Del resto, tanta parte dell’ideologia manageriale statunitense ci propone da tempo il valore del “go for the extra mile”, dello sforzo parossistico nella competizione perenne.


Quali alternative? Quali rimedi?

Se il romanzo attinge ai reali sentimenti e racconta le reali possibilità di una persona vulnerabile all’interno di un senso preciso della trama, e in quell’ambito si conclude (evito di indicare la conclusione della storia, che ci lega al personaggio di Cassie), noi operatori all’interno delle organizzazioni aziendali possiamo tuttora porci la questione delle possibili risposte a simili contesti tossici? Forse ci sarà possibile, ma solo all’interno di un concreto percorso di ripensamento e riorientamento culturale delle nostre attività. Anzitutto, abbandoniamo le soluzioni facili e le mode più in voga, inquinate dal “paradosso della stupidità funzionale”.[3]  E, soprattutto, impariamo ad apprezzare le persone non solo in base alla loro intelligenza e alla loro istruzione, al loro ruolo e alla loro accountability, o infine al loro potere: apprezziamo il loro coraggio, la loro gentilezza, la loro immaginazione, la loro sensibilità, la loro generosità, e tutte le altre loro qualità non immediatamente quantificabili[4].

Impegniamoci per contrastare il conformismo neoliberale, la supposta e spesso fittizia meritocrazia, e sosteniamo piuttosto con strumenti adeguati e con il nostro impegno civile una effettiva “sicurezza psicologica”, promuovendola e praticandola nei sistemi di governo delle persone: detto altrimenti, rendiamo possibile alle persone di obiettare senza timore di essere perseguitate. Ritengo che si possa investire concretamente per fare della sicurezza psicologica uno strumento di governo della vita delle persone e dei gruppi attraverso un impegno congiunto delle Funzioni HR e della consulenza professionale su questo tema, intorno al quale esistono già interessanti pratiche nelle aziende più avanzate. Un impegno che si tradurrà in processi di sostegno di un clima sano, attraverso precise metodologie di lavoro e collaborazione tra leader e gruppi.

Valorizziamo i concetti di piacere e di passione all’interno dei meccanismi di gestione e valutazione, in modo che gli individui, ispirati da sani valori umanistici, possano perseguire i propri personali interessi di crescita e cambiamento all’interno dei processi di economia aziendale. In sostanza, facciamo emergere il talento e il piacere di realizzare un’attività, minimizzando la distanza con gli obblighi imposti dalla competizione e dalla meritocrazia. La capacità professionale degli operatori di HR sarà, quindi, quella di rendere compatibili le genuine e individuali aspettative delle persone con gli obiettivi di un’azienda orientata al profitto ma anche al perseguimento di obiettivi di sostenibilità, benessere ed equità.

Sono troppo ottimista o addirittura idealista? Io penso si possa coraggiosamente parafrasare lo slogan di Margareth Thatcher, come seppe fare Mark Fisher: “Is there no alternative?”


[1] Già qualche anno fa, in questo stesso blog, mi sono divertito a commentare un romanzo che parafrasava provocatoriamente la vita aziendale: https://giuseppedefeo.wixsite.com/website/post/spunti-dall-horror-aziendale

[2] Federico Chicchi e Anna Simone, La società della prestazione, 2024

[3] ne ho parlato in un mio precedente contributo in questo blog: giuseppedefeo.wixsite.com/website/post/paradossi-nella-vita-aziendale-seconda-parte

[4] M. Young (2000), Equality and Public Service, “British Association for the Advancement of Science”, 11 settembre, Fabian Society - in op. cit., p. 170

 
 
 

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