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Spunti dall'horror aziendale

Aggiornamento: 17 ott 2020

Thomas Ligotti è un autore di racconti horror connotati da una scrittura raffinata, colta, ricca di atmosfere metafisiche, di riflessioni quasi-filosofiche sul nostro destino di “umani”.

In una piccola libreria indipendente, di qualità, ho avuto la fortuna di imbattermi in un suo volume che raccoglie “three tales of corporate horror”, come recita il sottotitolo della raccolta originale. Orrore aziendale, un’immagine di copertina oltremodo inquietante e insieme attrattiva, ecco l’impulso dell’acquisto. E mi ritrovo, dalle prime pagine, in un testo che descrive e “raffigura” proprio molte delle più comuni situazioni aziendali, che mi sono familiari dopo tanti anni di esercizio della professione di formatore aziendale.

I meccanismi del narcisismo e, accanto a questi, quelli del bisogno di rassicurazione e di protezione, l’ansia nei rapporti e per i rapporti interpersonali, il rifugiarsi collettivo nel pensiero conformista e unanimista.

La creazione di culture e di linguaggi stereotipati, di ideologie basate su slogan ossessivi e spesso vuoti di senso, come “fare più in fretta, fare meglio, in modo più economico”. Tutto questo, e molto altro, si racconta nella storia di Frank Dominio, quadro aziendale anonimo, supervisore grigio, il quale – allorché riesce ad avere uno scatto di intelligenza innovativa, proponendo un nuovo prodotto – diviene vittima del suo capo e del suo clan, che non possono tollerare deviazioni rispetto alla consueta “esperienza”, che fa il successo dell’azienda.


(Frank) “Per tradizione, e questo lo so, l’azienda ha sempre prodotto soltanto cose simili a quelle che produceva prima, in altre parole, imitazioni riciclate di ciò che facciamo da vent'anni”.

(Richard, il capo) “Si chiama esperienza, Frank. Siamo bravi in una cosa, e tanto basta a garantire un buon profitto”.

(Frank) “Ma fino a quando?”


Queste sono le organizzazioni aziendali quando, a causa della loro unidimensionalità ispirata al solo valore del profitto finiscono per de-umanizzarsi e si trasformano in luoghi di aggregazione totalizzanti ed escludenti, che forniscono ai loro “seguaci” l’unico e supremo “spazio di protezione”; o, come dice Richard:


“Non puoi mentire, Mary, né a me né al resto di noi. Siamo noi la tua famiglia. Siamo l’unica famiglia che ciascuno di noi abbia. Ah, magari qualcuno di voi ha un coniuge o un convivente, o dei figli. Ma non sono loro la vostra famiglia. Perché pensi di poter sedere a questo tavolo con noi? Non è un caso, te lo garantisco. È perché vi ho scelti.”


E, come ulteriore sviluppo mefistofelico di questa realtà, i colleghi - per amore di conformismo e assoluta necessità di esclusione di coloro che a vario titolo sono “altro” - diventano:

“... un branco di bestie che compiono le proprie imprese un po’ a casaccio, guidate da un basso istinto animale che distingue annusandole le creature di razza diversa dalla loro e ne fa il bersaglio di attacchi feroci e insensati.”


In un altro racconto incontriamo poi alcune scenografie metaforiche di estrema potenza e suggestione, dalle ambientazioni complesse, tra il surreale, il neogotico e il post-industriale, tra nebbie giallastre, antichi edifici dai soffitti alti, riunioni aziendali in sotterranei umidi abitati da topi e da strane, imprecisate presenze.


“Ricordo che lavoravo in un ufficio dove, a causa del clima di tensione divenuto sempre più opprimente e pervasivo, in qualunque direzione guardassi, la visuale era ridotta a poco più di un metro. (...) Per esempio, se per qualche motivo dovevamo allontanarci dalla scrivania e farci strada fino a un’altra parte del palazzo, non era possibile vedere oltre una certa distanza, ovvero poco più di un metro. Al di fuori di questo perimetro limitato – che immaginavo essere un “bozzolo di chiarezza” – tutto andava a confondersi in una sorta di tremula sfocatura, un’atmosfera di agitazione ... (...) Nelle strette corsie e nei corridoi dagli alti soffitti della Blaine Company era un continuo urtarsi fra i dipendenti, tanto ci opprimeva questo stato di cose in cui il clima di tensione mandava qualsiasi oggetto distasse poco più di un metro a perdersi in un tableau tremulo e velato.”

“(...) Quanto alle parole pronunciate dall'altra persona, io non sono attendibile, perché venivano immancabilmente alterate o, talvolta, si perdevano del tutto nello stesso clima di tensione e agitazione che perdurava nella sede della Blaine (persino negli spazi più ristretti, le battute di ogni conversazione si propagavano al massimo per una decina di centimetri, per poi trasformarsi in balbettii insensati o perdersi nel nulla.”

“(...) La situazione che ho descritto si poteva attribuire in una certa misura al sistema di gestione e organizzazione dell’azienda. Appariva evidente che i supervisori delle varie divisioni, e persino gli alti dirigenti, erano tenuti a creare nell'ambiente lavorativo un clima di conflitto, pregno di tensione, tra i dipendenti di livello più basso.”

“Come la maggior parte dei dipendenti di livello inferiore già sapeva, non era difficile abituarsi ai pensieri e alle fantasie di violenza ispirate da un supervisore di lungo corso, e per questa ragione i supervisori venivano spesso sostituiti in quanto incapaci di ispirare immagini di violenza inedite ai dipendenti che erano incaricati di supervisionare.”

Questi appunti vogliono evidenziare alcuni momenti di necessaria attenzione, favoriti da immagini evocate da una scrittura letteraria insinuante e suggestiva. Ritengo che uno sguardo critico e disincantato sia ancora più necessario in questo periodo pandemico che mette in questione i nostri punti di riferimento organizzativi e personali.

Le nostre grandi organizzazioni spesso colludono con le esigenze sociali dei singoli e dei gruppi, finendo con il creare culture chiuse, ripiegate su se stesse, incapaci di apportare un reale valore alla società nel suo complesso. Altrettanto spesso questo tipo di organizzazioni generano un malessere diffuso in molti strati delle loro ridondanti gerarchie e provocano così pesanti costi personali e sociali.

Viviamo in tempi di grande ansia, incertezza e complessità: forse più che in altri periodi della storia recente, dovremo essere capaci di riformularci, di far cambiare direzione ai tanti percorsi intrapresi erroneamente. Ciò si potrà iniziare a realizzare abbattendo una volta per tutte le pratiche di conformismo, l’ossessione per la standardizzazione, e praticando sistematicamente le competenze nuove, proprie di persone che sanno “ribellarsi”, cioè semplicemente percorrere con sistematicità e curiosità strade nuove e originali, pur senza certezza delle tappe e dei risultati finali. Persone che sappiano abbracciare l’incertezza, vivendo a partire dalla acuminata “certezza dell’incertezza”, e impegnate a pensare l’impensabile per far fronte a mondi del tutto nuovi. Seguendo questa linea evolutiva, non si potrà fare a meno di fondare una nuova etica, articolata in comportamenti che sappiano convivere dialetticamente con le particolari complessità del momento.[1]

Persone di questo tipo non si trovano in natura già belle e pronte, ma si educano con paziente energia attraverso un cammino impegnativo, per far evolvere le qualità che costituiranno i “ribelli del XXI secolo”.

[1] Mi piace qui citare un esempio positivo femminile preso dal mito greco: Antigone ... lei si ribella, lei vive come una semplice ragazza che segue la legge di natura, che si adatta alle esigenze dei sentimenti umani; nel mondo di Creonte, al contrario, non ci sono conflitti, perché vige una sola legge, che persegue l’omologazione assoluta di tutti i sudditi.

 
 
 

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