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Dimissioni e Governance Inter-generazionale

Le dimissioni di massa o, quantomeno, il preoccupante livello di turnover in aziende che avevano bloccato o rallentato le assunzioni per 15 o 20 anni, sono il nuovo sintomo di una diversa concezione del lavoro. Con la pandemia è entrato seriamente in crisi il sistema di valori che metteva in primo piano l’interesse per il lavoro e la carriera: sono emerse altre aspirazioni ed esigenze, come la voglia di staccare da ritmi intensi o la necessità di prendersi cura della famiglia e della propria crescita personale.

All’opposto, la pandemia ha anche spinto moltissime persone verso la ricerca di ruoli ben remunerati e più impegnativi in termini di iniziativa, competenze, creatività e che insieme consentano flessibilità nelle modalità operative. Tale ricerca viene soddisfatta con molta difficoltà da quelle aziende che hanno costruito negli anni un’immagine e un sistema di valori più tradizionali: una quota significativa di persone preferisce rimanere alla ricerca piuttosto che omologarsi nell’accettazione di ruoli insoddisfacenti. L’ambizione sembra così orientarsi verso una qualità del lavoro progettata personalmente in direzione di un equilibrio vita/lavoro e di una crescita a tutto tondo piuttosto che verso uno sviluppo di carriera in senso verticale.


Alla ricerca di un sogno

Si può partire dalla constatazione di un paradosso: il lavoro è oggi considerato fonte di dignità e autostima ma, al tempo stesso, il 60% dei lavoratori al mondo è fortemente demotivato e addirittura circa un quinto odia il proprio lavoro (si noterà che il totale fa l’80% dei lavoratori demotivato o alienato nei confronti del proprio lavoro!). Questi sono gli sconfortanti risultati del sondaggio Gallup “State of the Global Workplace: 2023 Report”.

La pandemia ha portato alla luce questa contraddizione. Il risultato è che molte persone oggi prendono la decisione di “abbandonare”, vedendo nel rifiuto del lavoro la risposta ad un sistema organizzativo sempre più esigente, pressante e incapace di bilanciare i sacrifici personali.

Questo fenomeno è il risultato di una graduale evoluzione degli atteggiamenti di fondo nei confronti del lavoro che si può osservare a partire dal secondo dopoguerra. I cd. Baby Boomer (in Italia i nati negli anni ’50 e sino alla metà degli anni ’60 – oggi negli stadi conclusivi della carriera lavorativa) coltivavano i valori del “lavoro a vita”, della “sicurezza”, dell’“obbedienza”, dell’“accettazione della gerarchia”.

Coloro che sono nati negli anni ’70 e ’80 hanno invece vissuto il “Blairismo” sociale, si sono cioè calati nella cultura neoliberalista che ha fortemente valorizzato l’individualismo e l’imprenditorialità (nel mondo aziendale si diffuse come un valore quello che è probabilmente un ossimoro, la intrapreneurship). La Generazione X, nell’era post-burocratica e post-fordista, ha dunque abbracciato l’ideale di un lavoro appagante come il fine stesso della vita delle persone. L’impegno nel lavoro per lo sviluppo di sé diventa il nuovo obiettivo per le persone di questa generazione, rafforzando la pratica della lealtà all’azienda in cambio di un legame forte, da parte aziendale, nei confronti dei lavoratori (un patto quasi di tipo “matrimoniale”, se pensiamo a una certa terminologia, come l’employee engagement). Una descrizione davvero ricca ed efficace di queste evoluzioni culturali si trova nel bel testo di Francesca Coin: “Le Grandi Dimissioni” (Einaudi 2023).

L’ideologia del “matrimonio” è stata esasperata sino a pretendere o imporre ritmi e condizioni di lavoro non facilmente sostenibili, sino a far cadere le barriere tra lavoro e vita privata, per far acquisire al lavoro una dimensione totalizzante.

Anche questa pressione costante per “andare verso l’extra mile” ha fatto in modo che in questo nuovo secolo di drammatiche asimmetrie la realtà diventasse fragile, ansiogena e incomprensibile: così nei lavoratori è scattata la cd. “sindrome da repulsione improvvisa”. Si è trattato di una reazione agli eccessi di un lavoro visto come ossessivo attaccamento agli obiettivi esclusivi dell’azienda, nonostante le incoerenze evidenti nel governo degli equilibri diritti/doveri delle persone.

Infatti, le Generazioni Y (Millennial) e Z (Nativi Digitali o Zoomer, i nati a cavallo dell’inizio di questo secolo) si sono ribellate a modelli di ossequio del lavoro o del superlavoro per la carriera, per iniziare a praticare con dimestichezza una sorta di “nomadismo” nei confronti dell’impegno nelle organizzazioni.

Nella ipotesi più ottimistica, queste generazioni hanno sviluppato una grande attenzione al tema del work life balance, e intendono quindi vivere in modo equilibrato il rapporto tra tempo di lavoro e tempo di vita, per una gestione piena del proprio tempo libero. Ma non solo ciò: si può riconoscere che una parte di questo gruppo generazionale sia contemporaneamente alla ricerca di una piena crescita professionale che si combini e si intrecci con un effettivo sviluppo personale. Questa è certamente una tendenza negli Stati Uniti, come sostenuto nei lavori di Whitney Johnson, ma capita di rilevare situazioni analoghe - anche se probabilmente meno diffuse – nella nostra esperienza professionale. Sempre più spesso, d’altra parte, si è sviluppato e diffuso soprattutto tra queste generazioni (che oggi hanno tra i 20 e i 40 anni di età al massimo) un sentimento di estraniazione rispetto al lavoro, un rifiuto che significa precisamente abbandono dell’idea di attaccamento e coinvolgimento (il lavoro serve solo per fini strumentali, per procurarsi i soldi di cui si ha bisogno): ciò che questi sentimenti producono in concreto è un’alta propensione a cambiare azienda o un allentamento diffuso dell’impegno lavorativo.

Nel Rapporto Censis 2023 si legge, tra l’altro, che per l’87,3% degli occupati la scelta di fare del lavoro il centro della propria vita sarebbe un errore; coerentemente, l’81,0% degli italiani dedica molta più attenzione alla gestione dello stress e alla cura delle relazioni. Massimiliano Valerii, in questa stessa rivista, ha tra l’altro evidenziato come non si possa parlare di vero e proprio rifiuto del lavoro, ma quanto meno si osservi la propensione di una parte dei lavoratori a cambiare lavoro, o tipologia del contratto di lavoro, in vista di opportunità migliorative delle proprie condizioni.

Questi fenomeni naturalmente preoccupano i gestori di quelle aziende che li subiscono maggiormente, per motivi settoriali o logistici (settori industriali o aree geografiche ad elevata intensità di concorrenza nel mercato del lavoro).

Ma la spiegazione, e l’inizio di un percorso di soluzione, non può risiedere soltanto in ciò che sin qui si è indicato. Come tutti i fenomeni sociali complessi possiamo ritrovarvi più di una causa, e per fortuna più di una sola linea di azione per affrontarli.


Lavoro analogico e lavoro digitale

Le generazioni più giovani che oggi incontriamo nelle aziende, i Millennial e i Nativi Digitali, hanno configurato la natura del loro approccio tecnico al lavoro a partire da una stretta correlazione con lo strumento informatico.

Per meglio comprendere questa affermazione, è a questo punto utile una breve digressione narrativa che esemplifichi le differenze tra mondo del lavoro analogico e mondo digitale.

La realtà analogica è fatta di “lentezza”, meglio, il lavoro nella realtà analogica o pre-digitale, così come l’apprendimento, erano processi lenti attraverso i quali si realizzava un migliore radicamento della propria consapevolezza e del proprio sapere. (Sul confronto analogico/digitale nella prospettiva delle neuroscienze risultano affascinanti e di piacevole qualità letteraria i testi di Maryanne Wolf).

Ad esempio, chi voleva approfondire un tema o scrivere un articolo con una base di documentazione, doveva recarsi in una biblioteca: aveva orari a cui assoggettarsi, volumi da ricercare e maneggiare, prendere appunti su un taccuino, fotocopiare testi, un tempo di studio, di impegno, di fatica... un percorso di settimane o mesi per scrivere un articolo che arricchisse una tematica o producesse un contributo innovativo.

Oggi tutti possiamo condurre una ricerca su Google, in frazioni di secondo ottenere centinaia di migliaia o milioni di risultati, è una “pesca facile”, per nulla faticosa … e, volendo, possiamo al limite fare “copia e incolla”. La qualità della ricerca potrà essere alla fine soddisfacente o anche buona, ma non ottenuta attraverso un processo graduale di maturazione. Questo tipo di processo veloce soddisfa le superficiali richieste di performance, di risultati a breve termine che esige la nostra società, ma non la naturalità e la qualità dei processi di pensiero e della loro evoluzione nel medio e lungo termine, la consistenza di tali processi.

Una frequentazione di lavoro relativamente “lenta” esercitava anche una influenza sulla qualità delle relazioni, che era spesso - almeno potenzialmente - più intensa e compattante, determinando spesso un affiatamento tra le persone, quando non anche relazioni di positivo attaccamento. O, all’opposto, si deve constatare come una struttura del lavoro fondata su una intensità spazio-temporale favorisse sentimenti di mal sopportazione se non addirittura di contrapposizione, di odio, secondo un’ambivalenza tipica delle relazioni umane. In ogni caso, dunque, la dimensione socio-emotiva era espressa in modo esplicito.

Diversamente da questa complessa situazione del recente passato, nell’età digitale si trasferisce in un ambiente virtuale la dimensione fisica e materiale del lavoro. È forse un bene che ormai da decenni non si disegni più al tavolo con matite, righelli e compassi (anche se molti studi appartenenti al campo delle neuroscienze confutano o sono per lo meno non univoci sul punto: in generale emerge una preoccupazione e si evidenziano alcuni rischi, sottolineando l’utilità di un equilibrio tra lavoro digitale e lavoro analogico).

Senz’altro un po’ meno favorevole può essere la nostra valutazione rispetto ai meeting su Teams o Zoom confrontati con le vecchie sale riunioni; bisogna in ogni caso rendersi conto che le nuove modalità di lavoro digitale influenzano la natura stessa del nostro sistema cognitivo e quella delle nostre risposte psicologiche a quanto ci accade nella vita lavorativa. Si può affermare che il sistema cognitivo e relazionale delle generazioni più recenti si stia adattando alla natura del lavoro digitale, sviluppando un approccio meccanicistico e utilitaristico alla professione e al ruolo in azienda. Una struttura “uomo-macchina” che tende ad escludere gli aspetti sociali ed emotivi fa sì che le nuove generazioni si pongano obiettivi strettamente pragmatici: aumento di stipendio, lavoro tecnicamente più stimolante, lavoro più comodo, lavoro vicino casa. Non sviluppano alcun livello affettivo, di attaccamento e quindi di fedeltà verso “il lavoro in quella specifica azienda”; verso di loro risultano inefficaci anche i migliori programmi aziendali di internal branding o di employee engagement.


Cosa fare?


Non ha senso pensare di individuare una specifica causa di questa realtà complessa: come abbiamo visto, si tratta di un fenomeno che ha più radici, sociodemografiche e psicologiche.

In sintesi, l’analisi sin qui proposta conduce ad evidenziare che da un lato sono cambiati i modelli di lavoro, diventati più flessibili nello spazio e nel tempo, dall’altro continuano a mutare e diventare più articolate le aspettative sociali riguardo al rapporto lavoro/vita personale. Questo quadro, paradossalmente, pur contenendo i germi di evoluzioni positive, non produce oggi automaticamente un incontro fluido tra tensioni e opportunità.

Probabilmente, ancora nel prossimo futuro, le aziende saranno costrette ad accettare un turnover elevato e rapido. Si attiverà una sequenza pericolosa e diseconomica: molte assunzioni, molte dimissioni, nuove assunzioni, ulteriori dimissioni, e così via. Quanto più ci si attrezzerà con processi di reclutamento e selezione efficaci o world-class, tanto più le aziende assorbiranno al meglio i contraccolpi di dimissioni eccessivamente numerose.

Inoltre le nostre aziende potrebbero andare incontro alla tendenza accennata verso lavori di qualità, gestiti in modo flessibile e ben remunerati: è una politica articolata che si sta realizzando con successo negli Stati Uniti. A fronte di un serio impegno progettuale e attuativo - sui fronti del design organizzativo, della cultura manageriale e delle prassi remunerative – si possono ottenere validi risultati in termini di retention e ingaggio delle persone. Indicazioni in questo senso derivano anche dal recente report di Randstad: “Workmonitor, the voice of talent in 2024”.

In molti casi può sembrare naturale e quasi automatica l’individuazione di carenze nelle capacità di gestione dei manager, come concausa importante delle dimissioni. Insieme all’arricchimento dei processi di reclutamento e selezione e, come detto, al design organizzativo e della compensation, effettivamente un’altra leva potrà essere quella degli investimenti in una formazione che renda i manager consapevoli delle diversità e capaci di ascolto e dialogo intergenerazionale con le esigenze e le aspettative dei loro più giovani collaboratori.

La leva di cambiamento più incisiva e impattante sarà l’attivazione del contributo dello Sviluppo Organizzativo. Si intende con ciò una serie di programmi aziendali con i seguenti precisi obiettivi:

§ diffondere un nuovo livello di consapevolezza sulla diversità generazionale attraverso incontri, progetti in teamwork, panel, media aziendali, insomma attraverso tutti i diversi modelli e strumenti di comunicazione e sviluppo organizzativo che la nostra creatività saprà mettere in campo. Questa consapevolezza potrà evolvere in una capacità di dialogo e di integrazione, in una alleanza culturale tra le diverse dimensioni del sapere e della conoscenza che andrà di pari passo con l’alleanza generazionale. Si realizzerà, in altre parole, una connessione tra la profondità e verticalità della dimensione del tempo (la cultura accumulata attraverso le generazioni) e la linearità e superficialità della dimensione dello spazio (la onnipresente e onnipotente Rete).

Questa tensione tra i due fondamentali aspetti del vivere di oggi è ben raccontata, con poetica capacità anticipatoria, dall’aforisma di T. S. Eliot: “Dov’è la sapienza che abbiamo perduto nella conoscenza? Dov’è la conoscenza che abbiamo perduto nell’informazione?”. Impegnarsi su questo fronte farà perciò emergere molte energie rinnovate nelle nostre organizzazioni di lavoro, come nella società in senso più allargato.

§ avviare una conseguente alleanza tra HR e manager, con necessarie ricadute sui processi di reclutamento, di inserimento, di carriera e di feedback; questo approccio deve partire da ciò che occupa le menti dei business leader, in modo da rispondere ai loro reali problemi. Questo vuol dire partire dall’attenzione alla diversità generazionale secondo il vissuto concreto e quotidiano dei business manager. Far parlare le persone che portano avanti in concreto gli obiettivi aziendali, farle parlare delle loro percezioni e delle loro esigenze, eviterà di costruire barriere fondate sul “gergo HR”, che spesso disturba i manager. E, parallelamente, porre questi punti di vista in relazione con quelli delle generazioni recenti, per poter mettere in campo azioni di cambiamento efficaci sui diversi fronti.

§ iniziare a praticare nuovi comportamenti che valorizzino una nuova cultura aziendale attrattiva (che porti in primo piano i valori dell’ascolto e dell’inclusione). Progetti di cambiamento, di riprogettazione di processi o sotto-processi aziendali, gestiti in forma collaborativa e con la sponsorship forte del management di vertice possono essere una leva efficace per un cambiamento culturale che renda attrattiva l’azienda per una parte dei potenziali dimissionari.

 

Un approccio graduale e, insieme, strategico e multidimensionale - come quello qui accennato – è in grado di trasformare il mindset aziendale e rendere flessibili i sistemi per affrontare con efficacia le sfide di questo periodo di transizione. La domanda che pongo è: potrà il mondo delle aziende e della consulenza sperimentare un approccio simile?

 
 
 

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