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PARADOSSI NELLA VITA AZIENDALE - seconda parte

Aggiornamento: 16 dic 2024

Oltre a quelli della identità e della fiducia, di cui ho scritto nella prima parte di questo contributo https://bit.ly/41oOXqD, incontriamo diversi altri paradossi nella vita aziendale. In particolare le ricerche in ambito aziendale hanno portato alla luce un meccanismo perverso probabilmente attivo sin dagli albori delle morfologie organizzative, ma oggi frutto delle nefande influenze insite nella complessità dell’economia e della società contemporanee. Temo sia questo il paradosso che provoca la maggior parte dei fenomeni erosivi della crescita organizzativa e del benessere delle persone, fenomeni che - ripeto - ci capita di incontrare molto spesso.

Questo paradosso è quello che viene esplicitamente chiamato della “stupidità funzionale[1]: un comportamento irrazionale e irragionevole, a bassissimo tasso di intelligenza cognitiva, che produce nel breve periodo risultati in parte positivi (e perciò detto funzionale), ma che rilascia tutto il suo potenziale negativo nel medio-lungo periodo, allorché le circostanze mutano anche in parte.

Un esempio estremamente efficace è quello della crisi dei mutui sub-prime (2008), un modello finanziario che diede agli operatori ottimi risultati nel breve periodo, operatori peraltro del tutto ignari dei complessi algoritmi che definivano questo tipo di modello. L’ignoranza e l’evitamento delle possibili conseguenze fecero sì che appena alcune condizioni cambiarono, il mercato cadde nella crisi forse più drammatica dai tempi del 1929[2].

Ma, riferendoci al mondo manageriale che ci appartiene, cosa dire di quel direttore che formalmente delega a due suoi collaboratori la gestione di un processo complesso e strategico, per poi bloccarne il percorso ad uno snodo decisionale di scarsissimo valore, completamente automatizzabile? O del caso di una giovane stagista incaricata di buttar giù un report per il CdA, con “due o tre slide d’effetto”, poiché il suo capo è troppo indaffarato?

Molte sono le origini di questo paradossale fenomeno: le strutture, l’imitazione, la cultura o le politiche di brand. Ma una delle cause più influenti mi interessa più da vicino, dal momento che me ne occupo da anni nel mio ruolo di formatore. Si tratta dell’affascinante e critico tema della leadership, che oggi è ormai spesso alla radice di una “stupidità funzionale”.

C'è una abbondanza di autodefiniti esperti che sfornano a getto continuo ricette per il successo e modelli pieni di fiducia e rassicurazioni: destinataria di queste ondate di proposte è una quantità confusa, desolata, annoiata di middle manager, vittime ideali di un’industria della leadership, ormai specializzata nel vendere immagini seduttive a tutti gli ingenui aspiranti leader[3]. Jeffrey Pfeffer, uno dei più autorevoli esperti di Organisational Behaviour, ha scritto che questi modelli di leadership sono spesso più speranza che realtà, si basano su desideri piuttosto che su dati, su credenze piuttosto che su scienza. In fondo sono una forma non dannosa di escapismo aziendale, di tentativi di scaricare responsabilità in modo indolore. E infatti questi modelli consentono a middle manager stressati di sentirsi come attori di cambiamento a livello globale, strategici visionari o profondi pensatori, tutto questo per alcune ore, magari grazie ad una sessione di workshop di sviluppo.

A volte la retorica della leadership combacia con la realtà, i leader sanno motivare, trasformare e persino servire i loro followers, ma la gran maggioranza dei leader coltiva anche stupidità. Essi ci riescono bene incoraggiando i livelli subordinati ad abbassare deliberatamente le loro capacità di pensiero e diminuire la loro autonomia, insegnando loro le virtù del conformismo. E spesso sono gli stessi aspiranti leader a censurarsi dal pensare. Grazie a molte delle idee che circolano nell'industria della leadership le persone evitano di chiedere, di fare domande più ampie, di ingaggiarsi in riflessioni più profonde e di considerare le conseguenze più complesse delle loro azioni.

Attenzione, però: tutto questo “non-pensare” può avere un'utile conseguenza almeno nel breve termine. Il paradosso della stupidità funzionale nella leadership si attiva proprio così: nel breve termine dà qualche risultato, utile per i leader, per i followers e per l'organizzazione nel più ampio senso. Infatti la stupidità funzionale, ad esempio:

  • aiuta le persone a evitare divagazioni e semplicemente a concentrarsi sul compito,

  • può abbassare o smorzare il livello di conflitto e di tensione,

  • può creare un illusorio senso di condivisione di significato.

Il leader che attiva la stupidità funzionale di cui parliamo rappresenta poi un valore per le organizzazioni poiché almeno c’è “qualcuno intorno”, che rassicura e da un senso di ordine, se siamo fortunati possiamo dire che c’è qualcuno a cui rivolgerci se ci sono dei problemi o, addirittura, qualcuno da incolpare se le cose vanno male.

Noi ci aspetteremmo che i leader siano migliori delle persone che essi guidano, altrimenti dopo tutto, come ci ricordano anche Rob Goffee e Gareth Jones[4], perché seguire qualcuno con una minore intelligenza, una bassa autostima, scarsa conoscenza e minore creatività di te? In realtà le persone sono spesso promosse a posizioni di governo organizzativo a causa di interessi vari di carriera, opportunità di carriera, buoni contatti, manovre politiche e pure semplice anzianità, non perché hanno grandi potenziali da leadership.

E i follower? Costoro preferiscono vedersi in realtà più come ingegneri, meccanici, cuochi, progettisti software, medici, esperti amministrativi, ecc., piuttosto che, appunto, come follower. Così possiamo vedere manager che, con buone intenzioni, cercano di guidare i loro follower, ma questi supposti seguaci, spesso, non pensano proprio di avere bisogno di leadership. Autonomia e lavoro gratificante con i colleghi, questo è ciò che essi cercano. È un discorso già abbastanza esaustivamente affrontato all’inizio dei grandi cambiamenti di questo secolo, p. es. da Manz e Sims nel loro “Business without bosses” (1995). Paradossalmente, in un’epoca di estrema complessità e ambiguità, alcuni meccanismi della leadership, perlomeno come spesso praticati, non fanno altro che rinchiudere in un recinto le capacità cognitive delle persone, limitandone il modo di definire la realtà e pensare e agire su di essa. Quando i collaboratori, a diversi livelli e nei diversi rapporti gerarchici, si rifiutano di farsi ingabbiare, e vogliono smettere di essere semplici esecutori, allora emergono le contraddizioni, la stupidità cessa di essere funzionale e l’organizzazione, in una sua parte o complessivamente, va incontro a momenti di forte tensione. Il conflitto che eventualmente ne deriva può essere positivamente risolutivo o distruttivo: questo rimanda alle considerazioni che seguono.

A questo punto, non posso che intravedere un paio di semplici passi per l’azione:

  • abbandonare finalmente la retorica della “leadership grandiosa”, evitando di nutrire mitologie della leadership che ci portano lontani dalla realtà quotidiana. La saggezza, l'intelligenza emozionale, la cura per gli altri, la riflessione, sono certamente desiderabili, ma queste qualità non sono così comuni nel mondo reale: troppo spesso i leader in carne e ossa mancano di queste qualità. Le persone che incontriamo sono talora in grado di fare discorsi eleganti sulla leadership, ma le loro idee sulla leadership e la loro pratica quotidiana non vanno affatto d'accordo. Questi “manager supposti leader” passano le loro giornate in routine amministrative. I loro lavori hanno più a che fare con gestire riunioni, email, report, piuttosto che con lo stabilire grandi visioni e ispirare le persone (è per questo che sappiamo quanto sia duro il lavoro manageriale!).

  • iniziare a lavorare su progetti e programmi più concreti, con i piedi per terra, per aiutare una consapevolezza effettiva delle persone nei vari luoghi dell’organizzazione, e sviluppare in tal modo capacità di auto-governo; attraverso adeguati stimoli educativi, le persone sapranno autogestirsi in percorsi individuali di cambiamento e di evoluzione coerenti con le loro reali aspirazioni e le effettive esigenze aziendali.

C’è una semplice avvertenza finale: sarà bene affrettarci ad attivare questo essenziale processo di cambio di prospettiva, anche perché, altrimenti, l’alternativa sarà che i middle manager e i loro collaboratori ai diversi livelli aziendali saranno legittimati a definire “stupido” e improduttivo questo stesso testo e tutto ciò al quale esso si ispira.


[1] M. Alvesson, A. Spicer, The stupidity paradox, Profile Books 2016

[2] Molto godibili sono anche i due migliori film sull’argomento, “Margin call” (l’ignoranza dei dirigenti e, insieme, il loro evitamento del problema) e “La grande scommessa” (l’estrema complessità degli algoritmi)

[3] Op. cit., p. 103

[4]  Robert Goffee e Gareth Jones, Why Should Anyone Be Led by You? – Harvard Business School Press 2006

 
 
 

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