Le soft skill: cosa farne oggi?
- giuseppe de feo
- 1 lug 2021
- Tempo di lettura: 8 min

Mi sembra utile prendere le mosse da un testo colto, ironico e provocatorio, un articolo pubblicato online da poche settimane, per condividere alcune idee sulle soft skill e il loro significato nei contesti organizzativi contemporanei. Un accademico, Emanuele Zinato, professore di letteratura e critico letterario (Dipartimento di Italianistica, Università di Padova) ci dà un contributo brillante, da una prospettiva originale e ideologicamente in forte contrasto con la prospettiva mainstream su una tematica, le soft skill, tipicamente appartenente alla cultura e alle pratiche dello sviluppo organizzativo.
Riporto il testo integrale del (breve) articolo, per poi sviluppare sinteticamente una sorta di risposta alle obiezioni di Emanuele Zinato sulla utilità delle soft skill. La mia non sarà una presuntuosa confutazione delle tesi di Zinato, anche perché condivido molto della visione etica e politica prospettata dall'autore. Voglio semplicemente affrontare la tematica delle soft skill da una prospettiva pragmatica e attenta alle implicazioni e utilità operative nella vita di lavoro delle organizzazioni complesse.
Soft Skills: un porridge per tutti

Scritto da Emanuele Zinato - 09 Giugno 2021 - Categoria: L'interpretazione e noi
Ogni settimana mi arrivano da parte dello Staff dell’ateneo delle mail inerenti l’implementazione (sic) di una qualche virtuosa e finanziatissima innovazione della didattica e della ricerca, nel senso, parrebbe da tutti auspicato, del Digital Learning e del Virtual Exchange Methodology. Ignorando il Documento di politica linguistica che il medesimo ateneo ha varato qualche anno fa sul dovere di mantenere l’italiano come lingua di insegnamento, in questi messaggi si glorifica la vera lingua universitaria del futuro: il veicolo standard angloaziendale, tanto protervo quanto ridotto all’osso dall’efficienza ideologica. Il messaggio implicito che giunge attraverso quella posta istituzionale, e che pazientemente cestino, è il seguente: “non pensare che oggi si possa fare università senza questa terminologia”.
Da ultimo: nel dizionario di questa neolingua d’ateneo, che si vorrebbe parlata da tutti, ora trionfano le Skills, o meglio le Digital Skills e le Soft Skills. Ora: sapevo che nelle aziende con Skill si definisce la capacità di portare a termine compiti lavorativi, distinguendo (grossolanamente, come nell’informatica) fra Hard e Soft Skills e intendendo queste ultime come competenze relazionali (emotive, comunicative, inerenti la postura, il sapersi vendere e proporre, il saper essere leader, dunque inerenti la mentalità e l’ideologia). Non mi sarei però aspettato che, così in fretta, nei luoghi deputati alla formazione pubblica, il termine “competenze” (le famose “otto competenze” europee) sarebbe stato rimpiazzato dalla parola magica Skills che ne è, a un tempo, la banalizzazione e l’adempimento.
A favore o contro le competenze (e sul modo di intendere un’eventuale “competenza interpretativa” e letteraria), come si sa, si è sviluppata in questi anni a scuola (a esempio, nella sezione didattica dell’ADI) una discussione complessa: un dibattito tuttavia che ora sembra destinato all’obsolescenza perché, - più o meno con la medesima rapacità con cui Bonomi ha ottenuto di ripristinare dopo la debole parentesi di Welfare pandemico, la libertà di licenziare, - la governance delle Università comincia a parlare diffusamente di Skills. Non si tratta, si badi, della semplice traduzione anglofila del termine “competenze” ma di una sua curvatura iperaziendalista. Delle “otto competenze” promosse dalle Raccomandazioni del Parlamento europeo, l’egemonia delle Skills punta, a ben guardare, a promuoverne una sola: la settima (la cosiddetta “competenza imprenditoriale”). Le Soft Skills esaltano infatti le capacità relative “alle attitudini, agli stili di comunicazione e alle doti empatiche ed espressive” necessarie a “una carriera di successo”: il Problem Solving, il Lateral Thinking, il Team Management. Per dirla in altri termini, un ottuso e disinvolto mix di psicologismo comportamentista d’accatto e di ideologia panaziendale. Il tritacarne linguistico non risparmia nemmeno il concetto-termine di “pensiero critico” che, privato di ogni tradizionale nesso con la critica sociale, è risemantizzato come la Soft Skill che più delle altre pertiene alla “creatività” e alla capacità d’innovazione.
Annusando l’aria che tira, credo che il prossimo passo sarà quello di additare ai docenti, mail dopo mail, con la medesima protervia quale ambita Soft Skill il modello supremo del TED (Technology Entertainment Design): palco, disco rosso e megaschermo, lezione performativa ad alto grado spettacolare entro la retorica discorsiva della persuasione liberale. Una piattaforma digitale metterà in rete, per migliaia di studenti, queste TED talks accademiche (un tempo chiamate “lezioni”) secondo un format nato nella Silicon Valley per diffondere “ideas worth spreading”, come: “superare le sfide”, “costruire l’autostima”, “pensare laterale”, “valorizzare resilienza e vulnerabilità”, ecc.
Così, a furia di vedere allungarsi ogni giorno il brodo anglofilo delle innovazioni didattiche iperaziendali e postpandemiche finisco per confondere, e certo a causa del mio cattivo inglese, il termine Skill con Skilly, per i britannici una pappa molto liquida, un porridge vegetale annacquato, una brodaglia per tutti, insomma.
E, del resto, il capitalismo odierno non è solo una forma economica: è un “ordine sociale istituzionalizzato” per tutti che, come l’ordine feudale, implica una sola forma di vita, oggi incentrata sul dogma dell’efficienza e della crescita, una struttura di tutte le relazioni, compresi i nomi dati alle cose. Se i docenti a scuola e all'università avessero ancora una funzione, anziché inchinarsi alla inevitabilità delle Skills dovrebbero viceversa lavorare con gli studenti a demistificare il tabù culturale che le presuppone. Dunque, a «trasformare il nutrimento delle persone, la salvaguardia della natura e l’autogoverno democratico in priorità sociali massime, che battono efficienza e crescita». (Nancy Fraser, Cosa vuol dire Socialismo nel XXI secolo? Castelvecchi, 2020).
Anzitutto possiamo apprezzare la simpatica ironia sul linguaggio angloaziendale, sulla neolingua che pervade tutte le espressioni della cultura manageriale e che sta invadendo anche territori più tradizionalmente paludati. Se facessimo tutti, soprattutto noi consulenti, un po’ più attenzione a non cadere in queste semplificazioni linguistiche, talvolta rozze, faremmo un bel regalo alla assertività del nostro linguaggio e alla qualità della nostra comunicazione.
Non mi pare però corretto criticare il concetto delle Soft Skill solo in virtù di questo vezzo linguistico, che impoverisce la lingua facendoci perdere la ricchezza semantica del termine “competenze” a favore dell’anglicismo. Le Soft Skill sono essenzialmente le competenze relazionali, come dice bene Zinato “competenze emotive, comunicative, inerenti la postura, il sapersi vendere e proporre, il saper essere leader, dunque inerenti la mentalità e l’ideologia”: Questo tipo di competenze è essenziale per il lavoro quotidiano nelle organizzazioni, e per una qualità del lavoro che voglia costruire risultati positivi nel lungo periodo.
Il termine “competenze” è molto più ricco di implicazioni, più interessante, affascinante – ma si noterà che, delle otto competenze europee – ritenute chiave per l’apprendimento permanente (https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/?uri=celex%3A32006H0962), la metà sono competenze relazionali o cognitive, di ambito psicosociale, altrimenti detto: sono soft skill. (v. elenco, dalla n. 5)
RACCOMANDAZIONE DEL PARLAMENTO EUROPEO E DEL CONSIGLIO 18 dicembre 2006 relativa a competenze chiave per l'apprendimento permanente (2006/962/CE)
1
comunicazione nella madrelingua: capacità di esprimere e interpretare concetti, pensieri, emozioni, fatti e opinioni sia oralmente che per iscritto.
2
comunicazione nelle lingue straniere: come sopra, ma comprende abilità di mediazione (ossia riassumere, parafrasare, interpretare o tradurre) e di comprensioni interculturale.
3
competenza matematica e competenze di base in scienza e tecnologia: solida padronanza sicura delle competenze aritmetico-matematiche, comprensione del mondo naturale e capacità di applicare le conoscenze e la tecnologia ai bisogni umani percepiti (quali la medicina, i trasporti o le comunicazioni).
4
competenza digitale: uso sicuro e critico della tecnologia dell’informazione e della comunicazione in ambito lavorativo, nel tempo libero e per comunicare.
5
imparare a imparare: capacità di gestire efficacemente il proprio apprendimento, sia a livello individuale che in gruppo.
6
competenze sociali e civiche: capacità di partecipare in maniera efficace e costruttiva alla vita sociale e lavorativa e di impegnarsi nella partecipazione attiva e democratica, soprattutto in società sempre più differenziate.
7
spirito di iniziativa e imprenditorialità: capacità di trasformare le idee in azioni attraverso la creatività, l’innovazione e l’assunzione del rischio, nonché capacità di pianificare e gestire dei progetti.
8
consapevolezza ed espressione culturale: capacità di apprezzare l’importanza creativa di idee, esperienze ed emozioni espresse tramite una varietà di mezzi quali la musica, la letteratura e le arti visive e dello spettacolo.
Il sistema delle competenze (o delle skill) nasce già diversi decenni fa per tentare di rispondere alla realtà che si faceva sempre più complessa per i sistemi aziendali, laddove la portata e la velocità dei cambiamenti nonché la loro complessità si facevano sempre più rilevanti. Da allora il mondo è diventato ancora più complesso, secondo un insieme di caratteristiche che sono ben sintetizzate dall'acronimo VUCA (Volatilità-Incertezza-Complessità-Ambiguità).
A fronte di questa realtà, non ci si può più ancorare con fiducia solo al mondo delle hard skill, le competenze tecniche e professionali, tra l’altro ormai trasferibili in sistemi esperti o intelligenze artificiali. Siamo sempre più convinti della necessità di valorizzare le nostre qualità più tipicamente umane, che ci consentono di essere coinvolgenti nelle situazioni sociali e quindi capaci di attivare il meglio dell’intelligenza collettiva per far fronte ai problemi sempre nuovi che viviamo.
Le skill, così come declinate nei saperi e nelle culture aziendali almeno dall'inizio di questo secolo, riguardano anche la sfera interpretativa dell’apprendimento, del saper andare dalla zona di conforto a quella prestazionale a quella, infine, di crescita e di cambiamento continui, per imparare a imparare. Quello che ci serve e ci servirà sempre più è il saper destrutturare criticamente le nostre certezze in modo continuativo, per costruire un atteggiamento di costante curiosità verso gli oggetti del mondo della conoscenza e verso le persone. Questo può contribuire a realizzare sistemi organizzativi più capaci, non semplicemente orientati al successo e alla crescita purchessia, ma che pongano al centro del proprio scopo il benessere della collettività e delle persone che vi appartengono.
Le esperienze più diffuse e avanzate e le ricerche manageriali dimostrano il rapporto complementare e di sostegno delle competenze soft rispetto alla capacità realizzativa delle competenze hard: in altri termini, la competenza professionale può concretizzarsi con la massima efficacia se sostenuta dalle competenze soft. Perché queste ultime (capacità comunicative, negoziali, di empatia e di leadership ...) si traducono in impegno, coinvolgimento, fiducia, coordinamento interpersonale e allineamento verso gli obiettivi.
Le soft skill ci salvano dagli algoritmi e dall'Intelligenza Artificiale: non si basano su stereotipi ma sulle esperienze e i comportamenti concreti e costruiscono il nostro saper fare e la nostra consapevolezza di scopi, desideri, orientamenti e motivazioni.
Quando le imprese e le organizzazioni in genere elaborano sistemi articolati di competenze anche sul versante soft si allontanano dall'incubo degli algoritmi automatici e dei “profili" che ci identificano e ci gestiscono per tanta parte della nostra vita quotidiana.
Infatti, sistemi consapevoli e condivisi di competenze contribuiscono a formare piuttosto “persone" responsabili delle proprie scelte e delle proprie azioni. Si tratta di evitare gli psicologismi d’accatto e una ideologia ottusa (secondo l’invito di Zinato) per aprirsi a una evidenziazione obiettiva, socialmente condivisa, dei comportamenti e degli atteggiamenti più efficaci in funzione del benessere organizzativo e personale così come del raggiungimento degli obiettivi organizzativi.
Le competenze soft sono gli ingredienti (e gli strumenti) intorno ai quali costruire il senso di pienezza nelle attività lavorative - che impegnano una parte così importante della nostra vita, da un punto di vista sia quantitativo che qualitativo. L’attenzione al sistema delle skill e al nostro miglioramento personale e professionale realizza la tendenziale coincidenza o sovrapposizione tra esigenze dell’organizzazione, esperienza professionale della persona e passione personale. (v. figura).

Giustamente Zinato stigmatizza la cultura delle learning pills e della spettacolarizzazione semplificante della conoscenza (le TED Talks), che rispondono alle esigenze del capitalismo neoliberista. Ma tali forme di semplificazione sono lontane dai modelli formativi proposti attualmente dalle società che, occupandosi di formazione manageriale, sanno disegnare i programmi in sintonia con le organizzazioni e le persone destinatarie delle attività.
Del resto, in conclusione, i valori superiori a cui l’autore dell’articolo si riferisce in conclusione, («trasformare il nutrimento delle persone, la salvaguardia della natura e l’autogoverno democratico in priorità sociali massime, che battono efficienza e crescita») possono essere sostenuti anche attraverso un sistema di soft skill orientato in tal senso.
Ancora di più, ritengo che il tema delle soft skill vada ormai inquadrato in una prospettiva più ampia e possa anche fare utilmente riferimento alla categoria innovativa segnalata in questo blog, quella della "rebel leadership". Intendo sottolineare che, piuttosto che ad un insieme di skill considerate, come si diceva anni fa, la “cassetta degli attrezzi del manager”, bisogna guardare alla necessità di far evolvere una nuova mentalità che ci renda preparati e flessibili rispetto ai grandi cambiamenti in corso. Oltre a un elenco realistico delle skill necessarie, bisogna sviluppare un vero e proprio assetto mentale innovativo, che si fondi anche sulle skill utili, ma soprattutto sia guidato da valori profondi e funzionali, quali la flessibilità, la curiosità, l’anticonformismo, l’autogoverno e la sensibilità verso le persone e l’ambiente. Le skill, soft o hard che siano, senza la guida dei valori e di un chiaro orientamento strategico, si rivelano strumenti poco efficaci.
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