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La nuova normalità e le comunicazioni

Aggiornamento: 2 giu 2022


Il biennio 2020-2021 è stato drammaticamente segnato dalla grave crisi pandemica; in questo 2022, mentre non possiamo affermare che il mondo sia uscito del tutto dalla pandemia, stiamo affrontando una grave crisi geopolitica con la guerra nel nostro continente. Possiamo dunque oggi parlare di “nuova normalità”? O stiamo ancora vivendo, come asserisce un certo dibattito, uno “stato d’eccezione”? Vorrei piuttosto argomentare come oggi, anche ai fini delle scelte di gestione organizzativa, sia necessaria un’analisi a un livello diverso da quello della filosofia politica. L’attenzione va posta in direzione del rapporto che stiamo creando tra l’uomo e il suo contesto – in particolare, le tecnologie – e a partire dalla natura e dalla qualità delle comunicazioni che instauriamo nella vita privata così come all’interno delle organizzazioni di lavoro.

La realtà è sempre in costante, intensa e imprevedibile riconfigurazione. Come è evidente, un ruolo centrale nei cambiamenti lo assumono da qualche tempo le tecnologie e le modalità di comunicazione e come queste incidono sui nostri sistemi sociali, cognitivi ed emozionali.

I cambiamenti tecnologici, che nel nostro vivere quotidiano sono ormai diffusi e consolidati, si organizzano di fatto per il dominio delle nostre strutture di pensiero e per il condizionamento delle nostre scelte. Per dirla da un’altra prospettiva, i sistemi del pensare e dell’agire che derivano dagli attuali strumenti di comunicazione e intrattenimento influenzano fortemente i nostri comportamenti quotidiani e le scelte operative che di giorno in giorno compiamo. Questo intrigante meccanismo può essere compreso anche procedendo per spunti empirici, “molecolari”, analizzando alcune situazioni di vita quotidiana. Si potrà così induttivamente apprezzare la direzione verso la quale stanno evolvendo queste tecnologie, nell’impatto sociale che esse possono avere, al di là di teorie distopiche, complottiste o catastrofiste.

I talk show

I canali televisivi già da decenni ci hanno preparato ad una connessione pressoché continuativa, in cui crescente era la necessità di stimolare costantemente la nostra attenzione. Oggi i talk show stanno compiendo la missione: con la loro semplificazione della realtà, la lettura necessariamente binaria e veloce di qualsiasi complessità, essi inseguono ormai quasi soltanto le emozioni più superficiali e rozze a favore di una tenuta dell’audience, penalizzando la riflessione e l’approfondimento. Gli impulsi sono privilegiati, si insegue il gusto della massa piuttosto che la valorizzazione degli individui, la omologazione dei concetti piuttosto che la considerazione delle differenze.

I tweet

Oggi il percorso è quasi compiuto: l’aggiornamento costante è sempre con noi, alla portata di uno scroll sullo smartphone. La vecchia opposizione “virtuale e reale” evocata all'inizio di Internet non tiene conto della nostra attuale vita quotidiana ormai plasmata nel continuum on/offline. Questi oggetti “non-cose” (smartphone, tablet, notebook) ormai ci possiedono nel nostro quotidiano, minuto per minuto, con la specificità della loro architettura logica. La maggior parte degli utenti di social network si tiene informata attraverso gli stessi social network, quindi legge o guarda una clip di notizie creata da algoritmi o “amici” che quasi sempre danno priorità all'intrattenimento sensazionalistico, drammatico o leggero, e non alla riflessione.

Attraverso i tweet crediamo di connetterci agli altri e di manifestare le nostre idee e opinioni. Ma i tweet non consentono sfumature, non vi si comprendono l’ironia o il sarcasmo, non si distingue la voglia di provocare da quella – contraria – di sostenere il conformismo. Bella è la descrizione di questi perversi meccanismi che dà Laurent Cantet nel suo ultimo recente film “Arthur Rambo”. L’ambiguità è insita nelle situazioni e nelle posizioni assunte dal protagonista, ma il mondo piatto e bidimensionale della comunicazione su questo “canale social” non consente alcuna dinamica evolutiva; quindi, ad esempio, la vera ironia è sostanzialmente introvabile. Come affermano ironicamente alcuni studiosi di social media, nell'era della connettività ci sono algoritmi per quasi tutto tranne che per la riflessione critica.

Il Metaverso

Il metaverso ci connetterà con una “realtà finzionale”, ci metterà in relazione tramite avatar privi di emozioni – se non quelle stereotipate. Non potremo interpretare e comprendere le reali emozioni dell’altro, non potremo stabilire alcuna relazione empatica. Si va costruendo una realtà di gioco, che ha la capacità di farci regredire e non la potenzialità di farci evolvere. Consideriamo gli strumenti della nudge economy, che attraverso i nostri smartphone – in grado di monitorare i nostri comportamenti – “ci sprona esplicitamente ad assumere comportamenti considerati razionali: a fare più attività fisica, a non procrastinare i nostri impegni, a lavorare di più; sempre sottoposti al bastone delle reprimende digitali e alla carota dei premi (che assumono la forma di medaglie virtuali)”[1]. Un meccanismo rozzo, che attiva il circuito perverso della dopamina, piuttosto che quello gioioso e positivo della ossitocina (metafora che i fisiologi tollereranno!). È facilmente immaginabile l’effetto di un tale sistema ipnotico/seduttivo in un contesto percettivamente immersivo e artificiosamente stimolante quale quello creato nel metaverso.

Se il capitalismo industriale del ‘900 ha venduto i sogni attraverso il cinema, il nuovo capitalismo iperliberista e ipertecnologico lo fa in modo più sofisticato ed efficiente, attraverso la promessa che “sei speciale e unico, sei il centro del mondo a cui si accede con apparecchiature che stanno nel palmo della tua mano”, o al di là del tuo visore ottico.[2] Dal punto di vista di un utente della rete, tutto sembra essere fattibile facilmente, e la videocamera è girata verso se stessi (v. il trionfo dei selfie). Ciò vuol anche dire che attualmente disconnettersi non è più un'opzione e, quindi, dobbiamo affrontare il dilemma di vivere nel continuum on/offline, distinguendo le sue attrattive dalle sue potenzialità e dai suoi risultati.

Non è più valida l’antica angoscia dei romanzi di fantascienza: le macchine diverranno sempre più simili a noi e finiranno per superarci? La domanda correttamente posta oggi è: noi stiamo diventando macchine? Stiamo incorporando caratteristiche e modalità di funzionamento del tutto simili a quelli di macchine automatiche e “razionali”? Come ben conclude Andrea Daniele Signorelli, un attento esperto di tecnologie, “siamo noi che stiamo imparando a parlare come una macchina. Sfruttando l’elasticità della mente umana, abbiamo imparato a rivolgerci alla macchina in una maniera schematica, sempre uguale, priva di quei tic e di quelle ambiguità che contraddistinguono il linguaggio umano. In un certo senso, è Alexa che ci sta addestrando”. E ciò senza troppa ironia, ma leggendo obiettivamente la realtà di questi fenomeni.

Il metaverso è il mondo delle scelte automatiche, predefinite - un macroambiente ove tutto è pianificato e asservito a logiche meccanicistiche che ci liberano dalla realtà fragile, ansiogena, non-lineare nella quale siamo effettivamente immersi. La mancanza di un concreto riscontro empatico nella realtà “ludica” del metaverso ci fa perdere la nostra ricchezza ed unicità, impoverendo la qualità del contenuto creativo che possiamo fornire. Se presentato in una prospettiva manipolatoria, consumeristica, può essere erroneamente vissuto come uno strumento extra, potenziante, in dotazione ai decisori aziendali così come agli utilizzatori privati; a disposizione per valutare le persone, per selezionare candidati, per sbrigare pratiche commerciali, per divertire in una rete specifica di “contatti”. Questo “arricchimento” del web potrà, in realtà, condurre ad un neo-comportamentismo asservito al modello di società dell’iperconsumo. Dobbiamo preoccuparci di tutti gli effetti ambivalenti di questa tendenza che rende purtroppo tangibile la visione anticipatoria di Günther Anders, quando parlò dell’uomo antiquato, superato e asservito alla tecnica.

Siamo di fronte a un bivio: la società che già stiamo realizzando sarà intelligente o realizzerà una stupidità di massa? Andiamo verso un mondo distopico, centralizzato e burocratizzato, o verso la società dell’intelligenza diffusa dove la libertà potrà ancora essere l’elemento cardine per tenere insieme sviluppo economico e democrazia? Interessanti e ricche sono le considerazioni di recente pubblicazione di due autorevoli studiosi italiani[3].


Queste note, partendo dall’esperienza concreta, vogliono almeno suscitare un’attenzione critica rispetto a fenomeni che sin qui abbiamo pensato di poter cavalcare facilmente, di poter piegare alle nostre esigenze. In particolare, gli operatori di Risorse Umane nelle grandi e medie aziende potranno porsi dialetticamente rispetto ad evoluzioni che sembrano automatiche e “naturali”, ma che di fisiologico non hanno alcunché.

È evidente che non si può evitare di confrontarsi con queste innovazioni, che vanno governate all’interno delle strumentazioni delle quali ci possiamo dotare nei vari contesti professionali e personali. L’utilizzo di realtà e strumenti immersivi di tipo tecnologico andrà perciò interpretato con prudenza critica, se vorremo continuare a valorizzare quelle dimensioni emozionali e creative che, quasi appena usciti dalle illusioni organizzative meccanicistiche e totalizzanti, stavamo finalmente imparando ad elaborare e praticare.

Praticare questo tipo di atteggiamento discernente significa che le applicazioni del metaverso avranno un senso se utilizzate in una direzione meramente “descrittiva”, per la illustrazione di processi aziendali, la presentazione di opzioni da valutare, l’indicazione di percorsi possibili. Saranno controproducenti e distorcenti quando pretenderanno di integrarsi pienamente nei processi discrezionali e valutativi, quando vorranno fornire ambiti per l’elaborazione di decisioni. Il processo decisionale dovrà tenersi il più possibile distante dall’attrazione di sistemi di facilitazione automatici, soggetti ad algoritmi spesso non controllabili e per di più arricchiti dal fascino di uno spazio di iper-realistica sospensione dai vincoli della fisicità. Questo è un suggerimento pragmatico per l’operatività delle questioni aziendali: è evidente che anche la sola descrizione o illustrazione di un fenomeno o di un processo influisce sul percorso decisionale possibile in linea di principio; ma è importante e utile almeno impostare un limite al campo di applicazione di questi ambienti immersivi online.

La complessità del pensiero si connette con quella dell’azione, svelando il valore etico di ogni nostra scelta manageriale: intelligenza complessa significa anche sapere e poter apprezzare gli aspetti cinestetici, empatici e relazionali dei fenomeni organizzativi. Non sarà mai possibile condurre una efficace ricostruzione di un processo aziendale se non nel dialogo con i suoi attori, né si potrà condurre una efficace sessione di coaching nello spazio ovattato di un ambiente algoritmico.

Proseguire sulla strada virtuosa dell’investimento sulle persone e sulla qualità concreta delle loro relazioni, evitando le illusioni di ambienti ipnotici, distorsivi e semplificatori: ecco ciò che abbiamo di fronte per poter anche solo sperare di vincere le enormi sfide che, nel mondo reale, ci pongono le crisi climatiche e le disuguaglianze socioeconomiche.

[1] Andrea Daniele Signorelli “Technosapiens – Come l’essere umano si trasforma in macchina”, andreadanielesignorelli.com [2] Richard Miskolci, Notas sobre o microfascismo nas redes sociais, revistacult.uol.com.br, 3 marzo 2017, traduzione di Stefano Rota; Miskolci è Full Professor of Sociology alla UNIFESP (Federal University of São Paulo) e researcher of CNPq (National Council for Scientific and Technological Development) [3] Chiara Giaccardi, Mauro Magatti – “Supersocietà”, Il Mulino, 2022
 
 
 

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